“Guarda che posto di merda. E abbiamo combattuto tutta la notte per ritornarci”.
Quando nel 1979 esce nei cinema The Warriors, I Guerrieri della Notte, New York è una città allo sbando. All’arrivo negli aeroporti, i turisti vengono accolti da poliziotti e pompieri che – in polemica con il governo della città – distribuiscono un “opuscolo informativo” il cui titolo è: “Benvenuti nella città della paura“.
Welcome to the fear city
In soli cinque anni, dal 1969 al 1974, una massiccia crisi economica si è mangiata New York e il suo bilancio: oltre 500.000 posti di lavoro manifatturieri persi, più di un milione di famiglie dipendente dall’assistenza sociale, stupri e furti con scasso triplicati, furti d’auto e assalti criminali raddoppiati, gli omicidi aumentati dai 681 del 1969 al 1690 del 1975. La città, in bancarotta, non ha le risorse per reagire e chiede aiuto al governo centrale che però nega qualsiasi aiuto straordinario e ad una legge “salva-new York” e di conseguenza al sindaco non resta che licenziare un migliaio tra poliziotti, vigili del fuoco e impiegati statali, con la ovvia conseguenza di un’esplosione di violenza, incendi e degrado nei quartieri che precipitano le periferie della città in uno scenario da Walking dead.

In risposta, poliziotti e pompieri licenziati vanno in aeroporto a consigliare ai turisti di non uscire dopo le 18.30, di evitare quartieri malfamati (praticamente tutti), di non prendere la metropolitana. New York di notte fa paura. Anche il cinema subisce e riflette questa sensazione generalizzata di violenza senza controllo e degrado senza speranza. Nel 1976 Martin Scorsese manda il suo Travis Bikle di Taxi Driver in giro per la città di notte a provare raccapriccio per la gente che si incontra: “Puttane, magnaccia, ladri e truffatori che insozzano le strade” al punto di sognare “Un diluvio universale che lavi via tutta questa sporcizia“.
E le soluzioni che i cittadini esasperati vorrebbero sono sempre più radicali. Gente come il poliziotto individualista e violento Harry Callaghan di Clint Eastwood o il Charles Bronson del Giustiziere della notte. I teppisti di strada, le gang che si autoformano nelle periferie sono visti come gente furiosa senza controllo quasi come degli zombi, come nell’apocalittico-urbano Distretto 13 – Le brigate della morte di John Carpenter.
C’era chi aveva visto tutto questo in anticipo. Sol Yurick, prima di diventare uno scrittore, è stato in servizio per diversi anni all’assistenza sociale di New York, conoscendo da vicino appartenenti a gang di strada che entravano e uscivano dagli uffici del welfare, per un sussidio o per un aiuto alle proprie disastrate famiglie.
Nel 1965 Yurick pubblica un racconto, The Warriors, a metà strada tra romanzo generazionale e saggio sociologico, nel quale una gang di strada del quartiere di Coney Island ne passa di tutti i colori tornando da un raduno di gang nel Bronx. Il racconto di Yurick è duro, spietato e soprattutto ricco di informazioni su chi sono e come la pensano gli aderenti alle gang di quegli anni.

Sono organizzate su base essenzialmente razziale (i neri, gli ispanici, gli irlandesi, gli italiani “che sono i più feroci”, dice Yurick), e nascono con lo scopo di riaffermare la propria identità. Hanno la disperazione tipica di chi non ha più nulla da perdere perché è stato abbandonato da tutti. Il racconto ottiene ottime recensioni, anche per la sua costruzione classica, la gang accusata ingiustamente di un crimine contro le stesse gang, deve tornare nel suo quartiere mentre tutte le altre le danno la caccia, proprio come nell’opera di Senofonte, l’Anabasi, laddove era un esercito di diecimila mercenari greci che tornava a casa dopo una guerra persa, il loro leader morto, e tutte le popolazioni che sulla via del ritorno, lo attaccano a più riprese senza pietà, come un branco di iene attorno al leone ferito.

Il racconto di Yurick arriva nelle mani di un giovane regista, Walter Hill che ha già diretto un film, ma soprattutto ha scritto una sceneggiatura per un film di grande successo, Driver l’Imprendibile, che per le sue ambientazioni notturne, le scene d’azione, i dialoghi rarefatti, le psicologie dei personaggi prive di “spiegoni” e desunte esclusivamente dalle loro azioni, ha attirato l’attenzione di un gruppo di nuovi produttori di Hollywood uno dei quali, Lawrence Gordon, accetta di produrre questa storia di una gang di strada intrappolata nella Fear City di New York.

“Ci sono due punti di vista almeno da considerare per giudicare The Warriors“, mi dice Alberto Crespi, critico cinematografico, autore del programma Hollywood party su Radiotre e fan del film. “Vidi il film alla sua uscita nei cinema, nel ’79, dove arrivò accompagnato già da diverse polemiche che lo descrivevano come eccessivamente violento ed esaltatore della violenza. Per me è un film catartico, nel quale la violenza è stilizzata, coreografica, ma al tempo stesso mi parve anche uno straordinario documentario su un mondo che non conoscevo, quello delle gang newyorkesi”.

“A quaranta anni di distanza – continua Crespi – fuori dalla temperie degli anni ’70 e dai paragoni con altri registi che allora lavoravano sulla rappresentazione della violenza (Kubrick ma anche Siegel, Peckinpah, Penn…), The Warriors mi sembra veramente un film consapevolmente mitologico. Sfuma Arancia meccanica, a cui pure era stato accusato di somigliare e di riprendere le stesse teorie di mera esaltazione della violenza e viene in primo piano “l’Anabasi“, il mito del ritorno (il “nostos” degli eroi omerici), le stazioni da percorrere, le vittime sacrificali. Sparisce la nozione di realismo ed emerge l’idea di rock’n’roll fable, anche alla luce di Streets of Fire, altro capolavoro di Hill, secondo me, che ha proprio quella frase nei titoli di testa, e in questo senso i disegni e la voce off della versione dei Warriors “director’s cut” del 2015 aiutano, accentuano questa dimensione fiabesca.

Per Crespi la più grande lezione di cinema del film è tutta nei titoli di testa. “Sono i più belli mai fatti. La musica di Barry de Vorzon tiene insieme in modo magnifico tre livelli narrativi distinti e fondamentali: i guerrieri che prendono il treno e i loro dialoghi che ci danno le scarne informazioni utili per capire la trama. Se cerchi online, c’è una lunga sequenza tagliata in cui tutte queste informazioni venivano date da Cleon ai compagni in una scena super “seduta”, sul Boardwalk, il giorno prima della missione; il classico “spiegone” che poi Hill invece decide di spargere nei frammenti girati in metropolitana, rendendolo molto più mosso e interessante; le varie bande che si dirigono nel Bronx, ciascuna con i suoi costumi; il viaggio del treno, con le inquadrature “a schiaffo” e i carrelli in avanti nelle varie stazioni.
“Il tutto legato, oltre che dalla musica, dalle inquadrature della mappa che percorrono tutta la città fino ad arrivare alla minacciosa scritta The Bronx. E’ una sequenza incredibile, perfetta; ogni regista, e ogni sceneggiatore, ogni montatore, dovrebbe studiarsela e impararla a memoria. Credo che tutto questo racchiuda i motivi per cui il film va ricordato. Perché è semplicemente perfetto, e i film perfetti insegnano sempre qualcosa“.
Elementi iconici e narrativi di un film cult
La gang sono un incubo di diversità capaci di restare impresse nello spettatore anche se appaiono per pochi secondi: nere, bianche, ispaniche, asiatiche, alcune – come i Guerrieri – mescolate razzialmente e, in una delle più grandi sorprese del film, le donne. Come le tribù persiane combattute dall’esercito dei 10.000 greci, ognuna ha il proprio equipaggiamento e le proprie armi.
I Boppers, i più eleganti, indossano pantaloni marrone chiaro, camicie nere e giubbotti magenta metallizzati con fedora noir anni ’40; I Savage Huns si vestono di un verde oliva cupo, come i prolet cinesi; gli Illuminators indossano giacche di seta oro giallo brillante con il loro emblema decorato sul retro. Le Baseball Furies, del Bronx, indossano le esatte divise gessate dei New York Yankees (Hill voleva usare il logo della squadra, ma il coach George Steinbrenner terrorizzato disse di no).
Gli Hi-Hats suggeriscono un’altra influenza letteraria. Sfoggiati in pantaloni neri con bretelle, magliette a maniche lunghe a strisce rosse, trucco bianco cadavere e cappelli a cilindro neri, sembrano i discendenti degli indigeni guidati da Bill the Butcher di Daniel Day Lewis in Gangs of New York di Martin Scorsese.
Per finire alla gang più grande, i Gramercy Riffs sono tutti neri e indossano magliette e occhiali da sole di giorno e karategi arancioni di notte. Nella scena finale, di giorno, li vediamo anche brandire un bastone da hockey che deve essere la loro arma preferita.
Dolly, la Dj che non vediamo mai
Sembra un dettaglio ma il personaggio di Dolly, la dj radiofonica tiene in piedi tutta la sospensione dell’incredulità necessaria a seguire il film senza sbuffare per troppa irrealtà. La storia si svolge tutta in una notte e come realizzare una sincronizzata caccia all’uomo, informando per tempo le gang in assenza di mezzi di comunicazione, di telefonini e messaggistica, giornali? Ed ecco l’idea della radio, un programma su cui tutte le gang sono sintonizzate, che dà l’esito della caccia minuto per minuto come in una radiocronaca di calcio, in uno slang affascinante che oscilla tra quello che oggi si definirebbe il politicamente scorrettissimo (“La banda degli orfanelli spastici“) e il machismo dei “super muscoli in ascolto“). Anche l’inquadratura che Hill riserva a Dolly, una bocca che parla ad un microfono e il cui volto che noi spettatori non vedremo mai, oltre a provocare incredibili difficoltà alla doppiatrice italiana Rita Savagnone nell’adattare i movimenti della grande bocca sullo schermo alle parole pronunciate in italiano, è un altro degli elementi iconici, sorprendenti, creativi e indimenticabili di questo film.
Cyrus e il bisogno di identità in una società devastata
Nel suo discorso alle gang, Cyrus infiamma gli animi come solo pochi leader sanno fare. Inizia descrivendo il miracolo di un centinaio di gang finalmente gomito a gomito, in pace, senza aggredirsi per questioni minime, relative al possesso “del nostro piccolo pezzo di terra, fratelli“. Passa ad illustrare i rapporti di forza esistenti “Siamo in sessantamila e ci sono solo ventimila poliziotti in città“, per poi arrivare alla base ideologica dell’azione che propone di realizzare: “Impossessarci della città” spodestando “il potere che delinque in maniera legalizzata“. Il bisogno di identità ci cui parlava Yurick nel suo libro, descrivendo la reazione dei ghetti abbandonati a loro stessi da una società a cui sembrava non importare nulla del destino di chi ci abita. Ma è un sogno, e come tutti i sogni eccessivamente ampi e visionari, anche quello di Cyrus è destinato ad infrangersi con un colpo di pistola sparato da un leader di una gang, Luther che, sul perché di quel colpo di pistola, dirà: “Non c’è una ragione. Io faccio tante cose senza una ragione“. L’abbandono, l’indifferenza, la solitudine, genera mostri, come il pazzo solitario e alienato di cui sarà vittima anche John Lennon soltanto un anno dopo. “Can you dig it“, riesci a capirlo, dice Cyrus al suo pubblico un attimo prima di finire la sua vita. No, non si riesce a capire il perché del gesto di Luther, ma non per questo i Luther di quel mondo e di tutti gli altri, compreso il nostro, cessano di esistere.
Dopo la morte di Cyrus scoppia il caos, I Guerrieri vengono accusati dell’omicidio, il capo dei Guerrieri, Cleon viene linciato dai Riffs e Swan, subentrato al comando per espressa designazione di Cleon, deve affrontare un primo tentativo di golpe al comando. Ajax, l’ala dura e anarchica dei guerrieri, si fa avanti. Per quel che lo riguarda, il capo è lui.
Lealtà vs irresponsabilità
Swan incarna tutte quelle doti e qualità morali che qualsiasi soldato vorrebbe che il suo comandante avesse, specie se subentrato in corsa. Lucidità di pensiero, capacità di pianificazione e soprattutto la salvezza del gruppo messa davanti a tutto. Ajax che lo sfida al comando “per me il capo sono io”, invece incarna la forza e la potenza del combattimento per cui i compagni lo ammirano, ma ne disprezzano il suo individualismo, il mettere se stesso davanti agli altri e per questo non ne appoggiano il tentato golpe. Individualismo che Ajax mostrerà poi finendo in una trappola della polizia che avrebbe potuto facilmente evitare se solo non avesse anteposto “una sveltina” alla sicurezza e alla protezione del gruppo. Per questo Swan è il capo. Che tutti vorremmo avere.
Mercy, la speranza di una vita migliore
“Non rinneghiamo i nostri colori solo perché ad una puttana le rode il sederino“. “Non darmi della puttana, non sono una puttana“. Mercy è l’emblema della scomparsa di qualsiasi autorità o soccorso statale nei ghetti e del disperato bisogno di una nuova prospettiva di vita. E se Cyrus individuava il percorso verso la salvezza in una rivolta organizzata, Mercy cerca di vivere la vita giorno per giorno, anche in maniera disordinata e dispersiva come se non ci fosse un domani. Anche perché il suo domani Mercy lo vede già, come rivelerà a Swan: “Non voglio finire come quella della porta accanto. pancia e tette distrutte, cinque figli, scarafaggi nella dispensa. Voglio una migliore, lo capisci, guerriero?“.
Guerrieri, giochiamo a fare la guerra
“Warriors, come out to play“, è la frase originale che David Kelly, l’attore che interpreta Luther, il capogang dei Rogues rivolge ai guerrieri nel prefinale, che in italiano è stata tradotta, forse ancora più efficacemente, in “Guerrieri giochiamo a fare la guerra“. L’oscena cantilena con la quale pronuncia più volte quella frase non era prevista in sceneggiatura ed è il frutto di una sua totale improvvisazione. Hill non era soddisfatto della scena e disse a Kelly di provare a inventarsi qualcosa per rendere quel momento ancora più ansioso e anticipatore di tragedia imminente e Kelly se ne uscì con quella cantilena che era la stessa, racconta, che un suo vicino gli rivolgeva quando da bambino lo invitava ad avvicinarsi per punirlo. “Daviiiiid, come here”, mi diceva ed era davvero inquietante sentirlo“. Una delle improvvisazioni più efficaci della storia del cinema, probabilmente.
La musica
Tutto il film è dominato da una colonna sonora eccezionale che scandisce i tempi e le fasi del racconto, ne anticipa i contenuti, ne sottolinea magistralmente i momenti. Si inizia da Nowhere to run, “nessun posto dove scappare” che dà il via alla fuga dei Guerrieri. Love is a Fire anticipa la trappola di una gang tutta femminile, le Lizzies, ad una parte del gruppo che si crede approdato ad un’oasi di tranquillità e di piacevolezza sessuale in una notte di tempesta.
La sequenza dell’inseguimento e del combattimento con i Baseball Furies, è un magistrale esempio di completa osmosi tra immagini e musica. Due minuti di grande movimento e bellezza visiva sottolineata dalla Baseball furies chase, che riprende la title track e infonde alla sequenza elementi di drammaticità ma anche di “rock visivo”, come sottolineò all’epoca Pauline Klean, critico cinematografico del New Yorker, unico nel panorama dei media che all’uscita esaltò il film indicando nei combattimenti stilizzati e nella musica incessante e di grande impatto, gli elementi tipici del musical, altro che esaltazione della violenza.
Fino all’ultima canzone, In the city, nei titoli di coda. Scritta da De Vorzon assieme a Joe Walsh, chitarrista degli Eagles, canzone liberatoria che vede i guerrieri finalmente giungere al mare, come i greci duemila anni prima, liberi dall’accusa infamante, con i versi che raccontano l’essenza dell’essere nato in quartiere dove “nasci già con le spalle al muro e quando precipiti, non c’è nessuno che ti prende al volo“.
Tutta la soundtrack del film è di Barry De Vorzon, compositore newyorchese autore di moltissime colonne sonore. Quella per The Warriors è la sua seconda collaborazione con Hill dopo la sua opera prima Hard Times del 1975.
“E’ una soundtrack molto ricca, un meltin’ pot musicale – mi dice Luca Thomas D’Agiout, compositore e autore di musiche per Mediaset, Magnolia e altri case di produzione – De Vorzon ha preso un certo rock newyorchese a cui ha aggiunto i sintetizzatori dell’epoca, ma non limitandosi a questo. Ha ulteriormente mischiato le carte con sonorità prog, tipo Rush, qualcosa del glam rock dei Kiss, ha messo al lavoro diversi musicisti di qualità come Mike Porcaro dei Toto, per poi finire con il southern rock di In the City, la canzone finale scritta che è a tutti gli effetti un pezzo degli Eagles, tanto da comparire in un loro album ufficiale, The Long Run. Il risultato finale è una sorta di patchwork, un’arca di Noè musicale che ha anche il compito di salutare il rock anni ’70 per introdurci nel decennio successivo che sarà poi dominato dai sintetizzatori. E’ una grande colonna sonora, frutto di una grande libertà, creativa e compositiva di cui verosimilmente deve aver goduto De Vorzon nel realizzarla. La intro iniziale, poi è perfettamente a cavallo tra il rock dei ’70 e il prog degli ’80. E’ musica concepita per il movimento e infatti accompagna, sottolinea, contribuisce moltissimo non solo a tutte le scene di combattimento, che sono molto stilizzate, sembra quasi un musical, ma anche alle altre scene, che se ci si fa caso, hanno sempre a che fare col movimento: le metropolitane, le lunghe passeggiate, perfino le lancette degli amplificatori della radio dove Dolly fa le sue dirette. E’ tutto un perenne movimento che finisce solo quando si fa giorno“.

“Faccio film su uomini duri in situazioni difficili“, ha detto Hill descrivendo la cifra principale del suo cinema. “Gente che incappa in situazioni spiacevoli, e che ne viene fuori da sola, con le sue sole forze, e quando ha finito, se ne va via, in silenzio così come era arrivata, e senza tante svenevolezze e intenerimenti“, come dice anche Dolly nella sua ultima trasmissione radiofonica, all’alba.
Buongiorno a voi, super muscoli. La caccia ai Guerrieri è finita. Quei ragazzi non avevano commesso il fattaccio, su nel Bronx. Hanno dovuto combattere e difendersi tutta la notte solo per salvare la pelle. Beh, ci dispiace davvero, non ci resta altro da fare che metter su una bella canzone.