Andiamo subito al punto. Se vi capitasse di leggere su un manifesto affisso al tennis club della vostra città: “Domani Roger Federer farà lezione di tennis ai ragazzi del tennis club e giocherà qualche partita”, immagino che il vostro commento non sarà “capirai, Roger Federer, è vecchio, cosa avrà mai da insegnare o da far vedere? Oggi abbiamo Sinner, cosa ce ne facciamo di Federer”.
E infatti, David Gilmour fa fatica a cantare “Ticking away, the moments that make up a dull day“, e però la novità è che non ce ne frega niente, anzi, è meglio così. Perché non è un disco. Se vuoi rivederti le partite di Federer, come ascoltare i dischi dei Pink Floyd, sarà un gran bel vedere e sentire. Ma oggi Federer è qui, con noi, con la racchetta in mano, ed è straordinario avercelo, guardarlo, sentirlo, portare le mani alla bocca dallo stupore e dire: Dio ti ringrazio per avermi tenuto vivo fino ad adesso.

David Gilmour è qui. Con i suoi 78 portati meravigliosamente, ed è qui per la prima volta senza quella sua perfezione a cui siamo stati abituati. La perfezione dei Pink Floyd degli spettacoli mastodontici dove anche l’ultimo dei riflettori segue un preciso e studiato percorso, dove tutto è cronometrato, pensato, provato, selezionato e bocciato fino a quando non è perfetto.

Niente di tutto questo. Qui abbiamo una band appena formata, che ha provato poco, che sembra al comando di questo 78enne che non vorrebbe essere al comando, vorrebbe essere uno dei musicisti, che non vorrebbe essere leader di niente, non vorrebbe dimostrare niente, non vorrebbe avere niente con cui stupire. Come è sempre stato. E come non è oggi.

Come ha scritto qualcuno particolarmente ispirato, oggi non siamo qui per la medaglia d’oro. Siamo qui per la medaglia di bronzo. Per vedere il nostro guitar hero, che è sempre stato sul gradino più alto, salire questa volta sul terzo gradino del podio – a fatica – a prendersi un bronzo inaspettato, quando nessuno lo prevedeva più.
Ma quel bronzo è oro.

E il concerto è una meraviglia.

Cominciamo dal suono. Quello si, ancora una volta perfetto. Un suono pulito, chiaro, incredibilmente missato e amplificato benissimo. Tutti gli strumenti sono ascoltabili singolarmente, basta cercarli con l’orecchio ed entrano tutti perfettamente. Il suono di questo concerto è un miracolo. Ne ho visti e sentiti di concerti. Questo è un suono che mi ero dimenticato di cosa significasse “sentire bene”.

L’altro miracolo di questo concerto è in una frase: “vi voglio bene”, che David Gilmour, ritroso e parco di parole, mai ha pronunciato e mai probabilmente pronuncerà (lo ha detto a Richard Wright – eccezionalmente – poco prima che morisse ottenendo in cambio un “Uhm” di approvazione) nei confronti dei suoi adepti.

Ma è per questo, per ringraziare noi, che si può capire questo concerto di 22 canzoni, nelle quali c’è sempre almeno un assolo, e dovunque i consueti fraseggi, le scale, i celebri bending, le distorsioni bassissime, le atmosfere rarefatte, le note tirate e lanciate nell’aria, tutto il repertorio gilmouriano, niente escluso, da parte di questo meraviglioso 78enne, che è qui, è evidente, per regalare tutto questo a noi.

Per dare a noi, ancora una volta, quello che lui sa che vogliamo. Sa che siamo qui per celebrare, egoisticamente, il nostro guitar hero, perché celebrarlo ci fa sentire ancora giovani, ci fa sentire vivi.

E lui a 78 anni, ci accontenta, gioca con noi, ci dà il guitar hero che vogliamo, sforzandosi al massimo di esserlo, facendo una grande e visibile fatica, nel trovare i tasti, nel far forza sulle dita, nel tentare, ancora una volta, di essere imprevedibile, di andare oltre, anche a costo di sbagliare e tirare qualche stecca.

“Fuck” dice quando presenta la sua band e qualcuno dietro gli segnala che si è dimenticato il tastierista, e lui si gira, insultando se stesso prima di pronunciare il nome del dimenticato.

David Gilmour è qui e fa fatica. Quale dimostrazione di affetto più grande può esserci al mondo?

Grazie per tutta la musica, Mr Gilmour. E soprattutto grazie per stasera. Che Dio la benedica.

P.s. Quando trovo il mio posto al concerto, accanto a me c’è seduto un ragazzo sui vent’anni, biondo, giacca di pelle, che sorseggia la sua birra. “Posso farti una domanda?”. E lui: “Sorry I don’t speak italian”. E allora nel mio miglior inglese maccheronico gli chiedo dove sono i suoi amici. “Sono venuto da solo”. Da dove? “Dalla Slovenia”. Ma quanti anni hai? “Diciannove”. A questo punto la curiosità è inarrestabile. Mi spieghi cosa c’entri tu con David Gilmour? E lui spiega che i Pink Floyd li ha sentiti in casa, dai suoi genitori, che la musica gli è piaciuta, ha ascoltato “quasi tutto, non ancora tutto” e che quando ha saputo che David Gilmour avrebbe suonato per tutta l’Europa solo a Roma, be’ lui non poteva perderselo. E ai suoi genitori ha detto che veniva a Roma per capire un po’ come funziona l’università e che si, c’era anche David Gilmour e forse sarebbe andato a sentirlo, ma in realtà il biglietto l’aveva comprato molto tempo prima. E sorride. E io sorrido con lui. Vorrei tanto abbracciarlo. Ma riesco solo a dirgli: grazie per essere venuto.

(le foto di questo articolo sono tratte dalla pagina facebook di Polly Samson e sono qui usate a scopo divulgativo e culturale)


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