Diavoli, la serie di Sky ambientata nell’alta finanza londinese, tratta dall’omonimo romanzo di Guido Maria Brera, ha un grande merito: quello di farci vedere da vicino i cosiddetti “Mercati”, quella specie di entità sovranazionale, ma invocata e idolatrata come e di più di una entità soprannaturale, che da qualche tempo è passata dal governare il mondo delle imprese a quello degli stati sovrani, decidendone il bello e soprattutto il cattivo tempo.
A decretare cioè se questi possano spendere i soldi dei cittadini per servizi come scuole, sanità, occupazione, oppure debbano invece utilizzare quei soldi per fare debiti e pagare interessi sempre più costosi, perché sotto attacco dei “mercati”.
Diavoli ci mostra la sala borsa di una grande banca d’affari della city londinese, che non è altro che una immensa sala scommesse, filiale di una più gigantesca sala d’azzardo che è la finanza mondiale.
A nessuno di questi giocatori interessa più se una impresa è solida, se ha prospettive ottime o pessime, se ha dei debiti sostenibili oppure no. Queste sono cazzate buone per le conferenze stampa o i voti delle agenzie di rating. In realtà quello che interessa a tutti, dai capi supremi fino all’ultimo trader, è “shortare”, ovvero scommettere da qui a un mese, su qualunque cosa, proprio come in una sala scommesse.
Vendi, compri, poi rivendi, poi ricompri azioni, titoli, obbligazioni, titoli di stato, valuta e moneta, con l’unico obiettivo di scommettere su rialzi e ribassi e di lucrare tra vendite e acquisti, che generano profitti per la banca ma anche per il giocatore trader, che si becca i bonus sulle transazioni e le usa fondamentalmente per comprarsi case con vista sui grattacieli e Ferrari o Porsche. Pagandone a lungo andare un prezzo notevole:
“Lei ha figli? Non li faccia – dice una vedova che ha appena visto il marito suicidarsi (forse, o forse è stato spinto) cadendo da un palazzo, episodio sul quale ruota tutta la serie – questo è un lavoro che ti scava dentro e ti ruba l’anima”.
Insomma, seppure con la tara della drammatizzazione – e anche una certa semplificazione – necessarie per realizzare una serie – Diavoli è essenzialmente il racconto di quella che ormai ha tutte le caratteristiche di una associazione a delinquere, di stampo finanziario, che è la finanza di oggi, con alcune caratteristiche proprie dell’associazione mafiosa: la cooptazione, la logica da clan, il bisogno di annientamento dell’avversario e non della sua semplice sconfitta, l’omertà verso tutti coloro che sono fuori dal sistema, a cominciare dalla polizia che indaga su uno strano suicidio, e soprattutto il senso di intoccabilità, di supremazia della finanza su qualsiasi altro sistema globale, a cominciare dalla democrazie degli stati che il sistema della finanza attraversa con scorribande simili – per danni inflitti a singole nazioni – agli Unni del Medioevo.
Si dirà che è una impostazione già ampiamente vista e sviscerata, tuttavia se questo è il sistema attuale non si può descriverlo in maniera diversa. Specie quando, dal 2008 fino ai giorni nostri, la finanza decide la lista della spesa dei singoli stati, in modi molto simili agli strozzini, prendendoli per la gola tramite le leve della speculazione e del famigerato spread che è solo un indice ma che genera conseguenze pesanti sulla realtà delle singole persone.
Questo è il contesto dove si muove un vero talento del trading, Massimo Ruggero, interpretato da un ottimo Alessandro Borghi, vestito e pettinato come il classico fighetto insopportabile di Milano Brera o Roma Parioli, a cui però Borghi conferisce anima, spessore, credibilità sufficienti soprattutto con un gran lavoro sul corpo e sulle movenze. La serie è costruita su standard internazionali, per cui regia, fotografia, montaggio, costumi, ambientazioni, sono al livello delle serie che vediamo abitualmente.
La mano di un esperto di finanza come Brera si vede sia nella storia sia nelle sceneggiature delle varie puntate a cui ha partecipato, con accenni appropriati alla situazione italiana. “L’Italia non può essere sotto attacco. Abbiamo una ricchezza privata che nessun altro paese ha”, dice il rappresentante del governo italiano (2011, epoca Berlusconi) che arriva nella City cercando di piazzare dei titoli italiani a buon tasso di interesse e la risposta che ottiene lo gela: “Già, ma se non la tassi, quella ricchezza non serve a niente”, risposta che sintetizza benissimo l’opinione che hanno di noi i nostri colleghi nordeuropei nella Ue e che ci relegano nell’ambito dei paesi Piigs, su cui c’è una divertente scena dove questa etichetta-insulto che diventerà poi celebre nell’ambito finanziario viene inventata da uno stagista in cerca di ascesa.
E che Brera sia un esperto lo si vede anche da certe letture per addetti al lavori: ad un certo punto David Duvall, una sorta di Assange della finanza, racconta il suo passato da “sicario dell’economia” ed è una bella citazione di un libro importante, “Confessioni di un sicario dell’economia”, scritto nel 2004 da John Perkins, ex funzionario della Banca Mondiale che descriveva nei minimi dettagli il lavoro degli uomini della banca, mandati in paesi in via di sviluppo, sostanzialmente a corrompere i governi per spingerli ad indebitarsi fino ai capelli per poi depredarli di tutte le loro risorse naturali.
Come si vede, proprio un bell’ambientino. Prospettive? La finanza è fatta da uomini, è la tesi di Brera che diventa poi anche di Massimo Ruggero, e quindi può essere buona o cattiva, mentre Dominque, l’altro protagonista è dell’opinione opposta: “Questo è un mondo che ha le sue regole e chi pensa di dominarlo si illude” che è il punto di vista tipico dei fenomeni umani non controllabili: anche se faranno fuori me, quello che verrà dopo sarà peggio.
Ed è probabile che così sarà, almeno finché i governi, che ha differenza dei mercati, hanno nome cognome e indirizzo, non decideranno di rimettere al centro della scena la politica e trattare questi giganteschi sabba orgiastici di scommesse mondiali, sulla pelle di ignari cittadini, per quello che realmente sono: puro gioco d’azzardo e nulla più, e mettendo trader, ceo, banchieri, gestori di fondi, ad un guinzaglio collegato ad un allarme nella più vicina centrale della polizia. Oppure non ne usciremo mai e la prossima crisi non è “se” ma solo “quando” accadrà.
Insomma, guardando Diavoli viene spontaneo dire: meno finanza e più Guardia di Finanza.
Pare che sia già in lavorazione una seconda stagione e speriamo che riesca a superare il limite di questa prima stagione che si limita a ripercorrere, spiegando certo, ma alla fine ripercorrendo il già noto senza inventare, cioè prevedere scenari futuri, che è quello che sostanzialmente chiediamo all’arte: reinventare la realtà, anticipare scenari, che è sempre il modo migliore per raccontare chi siamo e dove stiamo andando.