C’è un ragazzo in prima fila che terrò d’occhio per tutto il concerto. Ogni volta che Roger passa dalle sue parti, lui alza una bandiera con la stella di Davide, la bandiera israeliana, nella speranza che lui la veda.

Non si agita, non grida, non dice nulla. Non è insieme ad un gruppo, a degli amici, non si volta a parlare con nessuno. Alza la bandiera quando Roger passa davanti a lui. Non la sventola, non l’agita. Gliela mostra soltanto, tenendola tra due mani, tutte le volte che può. In silenzio.

Roger sicuramente la vede, la distanza tra lui e il ragazzo sono pochi metri, ma non darà mai l’impressione di averla vista. E tanto meno darà al ragazzo la minima attenzione.

Sento qualcuno che dice: ma cosa ci fa con quella bandiera quello? Cosa pensa di fare? Cosa vuole dimostrare? Che è venuto a fare? Ma è solo qualche voce isolata, in realtà nessuno ci bada a quel ragazzo, forse solo io.

Penso che quel ragazzo con quella bandiera, sia venuto semplicemente a testimoniare. Penso, mi paice pensare, che una bandiera, da sola, non significa appoggiare un governo, ma un popolo. E il popolo, come ci ricorderà Roger per tutte le due ore del concerto, e per i primi cinquant’anni appena trascorsi, non governa. Subisce. Viene schiacciato, affamato, sottomesso, o anche solo semplicemente ignorato.

Penso alla frase che apre il concerto, che appare sugli schermi a caratteri cubitali: “Se siete tra coloro a cui piacciono i Pink Floyd ma non amate le posizioni politiche di Roger Waters, bene, potete andare affanculo, seduta stante, al bar”.

Il ragazzo non va al bar. In effetti non ci va nessuno al bar. Restiamo tutti lì, noi a cantare insieme a Roger, il ragazzo ad alzare la sua bandiera.

Penso che le bandiere non vadano regalate a nessun politico, partito, governo. Una bandiera è una bandiera. È di tutti e di nessuno. Nessuno la può acquistare, rivendicare, rappresentare. Quella bandiera è di chi la tiene in mano. E basta.

“And We’ll become Confortably Numb”

La celebre, la più celebre, immensamente famosa Confortably numb è diventata una preghiera. Raccontare la contemporaneità attraverso le canzoni dei Pink Floyd reinterpretandole, rielaborandole, rileggendole e mettendole a commento dell’oggi, è una operazione intellettuale che solo Roger Waters può fare, o meglio, solo a lui riesce come una operazione credibile.

Del resto quei versi, quei pensieri sono i suoi e la profondità che riescono a raggiungere nell’animo umano, raccontando di noi stessi meglio di noi stessi, si prestano naturalmente all’immortalità.

All’inizio era Pink, il protagonista di The Wall a essere piacevolmente intontito dalle droghe. Oggi, ci dice Roger, gli insensibili siamo tutti noi e questa insensibilità al mondo che ci circonda rischia di portarci in un paesaggio spettrale, a catastrofe avvenuta.

Ha fatto bene Roger Waters a prendere la canzone più Pink Floyd di tutti i Pink Floyd e a rileggerla così? È una domanda inutile. Il tema che pone, supera l’operazione musicale. Il Tour si chiama This is not a drill, ma potrebbe anche chiamarsi This is not a concert.

Roger Waters, le sue idee, le sue immagini, le sue visioni, le sue chiavi di lettura vengono prima. Di tutto. Aprono e chiudono. Sei d’accordo, non sei d’accordo, questo si questo no, questo forse. Ma non puoi non riflettere. E quelle idee comunque entrano e si sedimentano, ti pongono interrogativi. Non puoi farci niente.

“You, yes you, stand still laddy!”

The happiest days of our life/Another brick in the wall parte II e III.

Chi controlla la narrativa controlla il mondo, si legge sui maxi schermi. Quella che era la critica al sistema educativo britannico negli anni ’50 fatto di insulti, umiliazioni e bacchettate sulle mani su cui si reggeva il controllo delle nuove generazioni da parte delle precedenti (una massa di insegnanti frustrati “a cui a tutti era noto che la sera venivano poi schiavizzati a loro volta da altrettanti mogli psicopatiche e dittatoriali”) oggi diventa la critica al sistema mediatico messa in atto dai governi: propaganda, menzogne, e narrative fasulle (l’esempio massimo può trovarsi nella “esportazione della democrazia” a suon di bombe del primo decennio americano di questo secolo) governano il mondo.

Stai fermo, e stai a sentire. Non avrai altra verità che quella che ti dico io. E quello che ti dico io, ogni volta è solo un altro mattone nel muro. Della menzogna.

“They like treats. Tricks. Carrots and sticks”

The Powers that be

The powers that be è una espressione inglese che indica “I Poteri forti”. È anche la quarta traccia di Radio Kaos, album di Waters del 1987, che qui viene riletta in chiave oppressione della polizia, con lò schermo che ci indica tutti i morti durante operazioni di polizia in tutto il mondo, con tanto di nome e cognome e la colpa incorsa, “essere nero”, ad esempio.

Se vedi un furgone con i vetri oscurati, faresti meglio a correre. Lo dirà ancora dopo, quando sarà il turno di Run Like hell, con cui condivide il verso “You better run”. Ha tanto senso averla inserita.

“By the Uzi machine gun. Does the recoil remind you. Remind you of sex, Old man what the hell you gonna kill next”

The Bravery of Being Out of Range

Un altra canzone contro la guerra, introdotta da un Ronald Reagan che parla di un impero del terrore da sconfiggere. Parlava dell’Unione Sovietica, ma vale anche per i decenni dopo, Chile Iraq I e II, Panama e tutti i teatri di guerra americani aperti più perché si poteva aprirli e non per ragioni particolari. Come in un gioco.

L’eroismo di chi fa la guerra tenendosi fuori portata. È una canzone del 1992. Se pensi ai droni di oggi, c’è più di un che di profetico.

“The Bar”

Il bar non è quello dove invita i fan non d’accordo con lui ad andare affanculo. Il bar immaginato in questa canzone è un luogo di confronto e di scambio in cui di discute dei problemi del mondo confrontandosi con perfetti sconosciuti, uniti solo dalla comune condizione umana, quella di esseri umani desiderosi solo di vivere la propria vita assieme agli altri in pace e serenità. Sugli schermi sfila la protesta silenziosa in corteo degli indiani Sioux in South Dakota.

“The band is just fantastic, that is really what I think. Oh, by the way, which one’s Pink?”

Have a cigar, Wish you were here, Shine on you crazy diamond parte VI,VII e V.

Foto di Paolo Meloni

Quella band si, è davvero fantastica e Wish you were here, l’album che contiene queste tre canzoni, ne è una dimostrazione.

Sullo schermo scorrono le immagini dei Pink Floyd rigorosamente limitate al 1967, all’epoca del primo album, così si può mostrare il Diamante pazzo Syd Barrett (ed escludere David Gilmour, vero deus ex machina delle quattro canzoni, visto che il geniale riff di Have a Cigar, la musica di Wish you were here e la sublime chitarra di Shine on sono le sue, ma questa storia, brutta, tutti i fan la conoscono fin troppo bene).

Roger introduce il trittico parlando di Syd, di come lui aveva trovato, e inventato i Pink Floyd e di come loro l’hanno, da subito, perso. Racconta di un episodio a Los Angeles con Syd già altrove e sullo schermo si legge: “Quanto può essere facile perdersi?”.

E io mi chiedo: non era il caso di suonare una canzone di Syd? See Emily Play, Arnold Layne, The Scarecrow, ce n’erano tante. Ma non sarebbe Roger Waters se non si mettesse lui davanti a tutto. Geniale, immenso, fantastico, megalomane Roger. Dove c’è lui non può esserci nessun altro.

Questo terzetto è il punto floydiano più alto del concerto. Have a cigar conserva tutta la sua energia e Roger stenta a stare dietro a quelle ottave altissime, e deve essere sostenuto dal coro, ma non frega niente a nessuno, perchè gli assoli seguenti, gilmouriani fino all’osso, ti prendono alla pancia per sollevarti e sventolarti come una banderuola.

Wish you were here è un momento magico e chi può ne approfitta per piangere, facendo finta che sia il sudore ad entrare negli occhi.La scelta di fare Shine on dalla fine andando a ritroso è una piccola perla sopratutto se si pensa che fu Richard Wright a concepire le parti finali. Si quel Richard che Roger tre anni dopo caccerà dalla band.

“Harmlessly passing your time in the grassland away. Only dimly aware of a certain unease in the air”.

Foto di Mattia Carnio

Sheep merita una menzione a parte. Penultima traccia di un album immenso, Animals, rilettura della distopica Fattoria degli animali di George Orwell, che qui si presta ad un’ulteriore rilettura contemporanea.
Chi sono quelle pecore ignare di tutto, che non fanno altro che pascolare placidamente, controllate rigidamente dai Cani, a loro volta a guardia del potere detenuto dai Maiali?

La fusione voce-tastiere, la chitarra tagliente un tempo appannaggio di Gilmour viene sapientemente custodita da Dave Kilminister e Jonathan Wilson che rieseguono i riff come si esegue Mozart o Beethoven.
Sullo schermo e dal cielo le pecore sorvolano il pubblico e scrivono tweet indignati in una lunga sequenza, intervallati dalla Bibbia.

Roger Waters è qui. E regna.

“And that one looks Jewish. And that one’s a coon. Who let all this riff-raff into the room?”

In the Flesh/Run like hell.

Il dittatore psicopatico di The Wall fa il suo ingresso in arena, con il consueto impermeabile con i martelli a forma di svastica, gli occhiali reyban a mo’ di despota sudamericano e i soldati a fargli da scorta. È l’orgia del Potere Assoluto, rappresentato dal maiale di Animals che sorvola il pubblico e da una strana “Like Hell Inc” segnalata dagli schermi, sorta di multinazionale della repressione, il Profitto generato dal Terrore e dall’Assolutismo.

Sembra quasi di stare dalle parti del Commissario senza nome de “Indagine su un cittadino” quando dice “Repressione è civiltà!”. Le sirene sullo sfondo confermano.

“Quello sembra un ebreo” mi pare la migliore risposta al ragazzo con la bandiera, ma mi sono distratto e non so se ha recepito il messaggio. Waters non è un antisemita, tutta la sua produzione sta lì a dimostrarlo, è un insulto anche solo pensarlo, e il suo dittatore che addita “i giudei” ne è la chiarissima dimostrazione.

“If I were a drone. Patrolling foreign skies, with my electronic eyes for guidance, and the element of surprise”

Penultima traccia di Is This the life we really want, Deja vu è una ballata dedicata alla pace e contro ogni guerra. Qui la vediamo in chiave diritti negati, sugli schermi scorrono tutte le minoranze schiacciate, emarginate, vessate spesso da “pacifici occidentali” con la passione per la tortura. Il testo è di agghiacciante bellezza, l’atmosfera è quella, ancora, di disperata preghiera. Non si può restare indifferenti. Non ci si riesce in alcun modo.

“So, every time the curtain falls, Every time the curtain falls on some forgotten life, It is because we all stood by, silent and indifferent. It’s normal”

Sovrastato dai Pink Floyd, Roger Waters spesso ha subito il contrappasso di una triste indifferenza ai suoi pezzi solisti. E anche l’ultimo lavoro, Is this the life we really want, sembra essere colpito da questa maledizione.

Is this the life we really want, canzone dell’omonimo album del 2018, è un pezzo tanto dolente quanto urgente.
“È per questo che non sentiamo o vediamo? O siamo solo intorpiditi dalla reality TV? Ogni volta che cala il sipario su una vita dimenticata, è perché siamo rimasti tutti a guardare, silenziosi e indifferenti. È normale”.

“You lock the door, and throw away the key. There’s someone in my head, but it’s not me”.

Money, Us and them, Any Colour you like, Brain Damage, Eclipse.

L’intero lato B di The Dark side of the moon nell’anno del suo cinquantesimo anniversario. Roger non fa particolari annunci, attacca Money e il suo leggendario riff in 7/4 ed esegue in modo fedele, come da tradizione floydiana, tutte le canzoni, affidando le parti vocali a Wilson mentre sullo schermo vediamo maiali conpiaciuti che si stringono le mani, le persone che camminano in slow motion di Us and Them, capolavoro di Richard Wright scartato da Michelangelo Antonioni che disse che gli sembrava una canzone “troppo triste” per il suo Zabriskie Point. Succede anche questo.

Non so cosa si potrebbe fare con la parte di sassofono di Us and them, talmente è bella, talmente è struggente.

Mi viene in mente quell’aneddoto che vuole Syd Barrett, in un anelito di vitalità, e apparentemente non consapevole di essere appena stato estromesso dal gruppo (David Gilmour è appena arrivato a sostituirlo) parla del futuro della band agli ex compagni, dicendo che ha grandi idee musicali, tra cui prendere un sassofonista. Gli altri ne sono costernati. Non immaginano il futuro in cui i brani più belli dei Floyd conterranno parti meravigliose di sassofono.

(Any colour you like non è fatta benissimo. Ascoltare la versione dei Pink Floyd di David Gilmour in Pulse per un confronto che il chitarrista vince a mani basse).

C’è quel verso, in Brain Damage: “Blocchi la porta e butti via la chiave. C’è qualcuno nella mia testa, ma non sono io” che, da sempre, mi devasta. È inevitabilmente legato a Syd, ma non è solo per questo che mi devasta, ma mi devasta, anche stavolta, e devo trattenere le lacrime. Inutilmente.

“And all that is now And all that is gone. And all that’s to come. And everything under the sun is in tune. But the sun is eclipsed by the moon”.

Eclipse, ultima traccia di The Dark side, sfila via tra triangoli che si illuminano, battiti cardiaci, e una miriade di immagini di persone comuni in un muro di fototessere, fino al boato finale di un pubblico estasiato.

“The sun is in the east. Even though the day is done. Two suns in the sunset”

Tiriamo le somme da quanto abbiamo detto finora. Indifferenza, odio, guerra, prevaricazione, prepotenza, furore cieco, idiozia, stupidità, tutto questo dove ci porta?

In Two suns in the sunset, un uomo torna a casa. guidando la sua macchina, verso il tramonto. Ma non c’è un sole. Ce ne sono due. Ma il secondo non è un sole, è un fungo atomico. The Final cut contiene tanti finali, con questo album finiscono anche i Pink Floyd che non saranno mai più questi che abbiamo conosciuto finora.

Ed eccoci di nuovo al bar, per un ennesima discussione, ma pacifica. Beviamo un bicchiere assieme, tutti noi miliardi di abitanti di questo pianeta.

Questa non è una esercitazione. Dobbiamo farlo davvero.

Magnifico, fazioso, intransigente, geniale, prezioso. Questo è Roger Waters e questi non sono, solo, i Pink Floyd.